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SPEZZARE E COLLEGARE
Ogni anno, da quando sono nata, metà delle mie vacanze
estive erano ad Albaneto, un paesino, di 44 abitanti, a mille metri di altezza
al confine tra Lazio, Abruzzo e Umbria.
Ero piccola, era il posto in cui più mi sentivo libera, il
posto che ogni anno aspettavo di rivedere. C’erano i miei nonni su, la mia
famiglia, le mie origini.
Tutto era una tradizione lì, perfino il viaggio non era solo
un viaggio, ma una serie di riti, di usanze… Si partiva all’alba, usciti da
Roma, quando la radio non prendeva più si metteva un CD di Battisti, si
cantava, si passava davanti a campi di girasoli e subito dopo il paesaggio
cambiava.
Le montagne erano strane. Comparivano all’improvviso, con
tutta la loro maestosità, la loro grandezza, ma erano diffidenti le montagne,
rimanevano sempre irraggiungibili.
Ne prendevo sempre una come punto di riferimento e ad ogni
curva del tornante dovevo cambiarla perché la precedente mi abbandonava.
Per il mal d’auto mamma mi dava una gomma da masticare e mi
diceva di guardare sempre la strada, ma come facevo a guardare una strada se ai
lati avevo loro? Spiaccicavo il viso contro il finestrino e mi chiedevo come si
potesse raggiungere la loro cima.
“Con i tornanti, con tutti i sentierini che ora non vedi,
non puoi mica pensare di arrivare lassù andando sempre dritta!”. Questa era la
risposta di papà.
Poi c’erano gli alberi, così piccoli rispetto a loro. File e
file parallele di stecchini sormontati da questa enorme macchia verde.
SPEZZATE E COLLEGATE, così vedevo le montagne…
Arrivati in paese serviva giusto il tempo di prendere la
bici, radunare qualche amico e via dentro l’enorme macchia verde.
Vi siete mai sentiti persi nonostante sapeste la strada?
Avete mai sentito l’odore dei cerri, il cigolio di rami
piegati dal vento, il fastidioso ronzio dei tafani?
Siete mai stati accecati dal raggio di sole che filtra i
rami e le foglie di un bosco?
Il sentiero era sterrato, i sassi schizzavano nei raggi
della bici e quel rumore spezzava il suono silenzioso del bosco. I più veloci
erano quelli a cui non interessava nulla, se non raggiungere Fonte Stefano,
loro guardavano solo per terra e io li lasciavo andare avanti.
Riuscivo a sentirmi persa, immersa in quel sotto bosco. Nonostante il sentiero fosse segnato, non capivo a che punto della macchia mi trovavo, a quanto indietro fosse rimasto Albaneto.
Poi, scansato l’ultimo ramo, evitata l’ennesima pozza di
fango e rimessa per la quarta volta la catena alla bici, eccoci qui: sotto il
ramo di una quercia, Fonte Stefano.
Niente di più che un po’ di pietre ricoperte e protette da alghe e muschio.
Il primo che arrivava andava subito ad affacciarsi. Se la fonte era piena d’acqua avevamo giusto il tempo di bere e riempire le borracce. Significava che il gregge e i maremmani che lo controllavano dovevano ancora passare di lì e avevamo poco tempo. Viceversa, se la fonte era vuota e non si sentivano campanacci, si poteva stare tranquilli. Sul fondo rimaneva uno strato di melma, un fango simile ad argilla che usavamo per fare le nostre sculture, o banalmente per tirarcelo…
Al primo rintocco della campana in lontananza calava il
silenzio: tutti impegnati a contarli.
Sei rintocchi. Bisogna tornare.
Usciti dal bosco una salita paragonabile alla Tappa 17 del
Giro d’Italia portava alla piazza.
Qui una serie di muri in pietra che hanno per cappello vari
tetti sorvegliano i bambini che giocano e ascoltano le vecchiette che
spettegolano.
Tra quelle mura, all’angolo della piazza, la finestrella
della mia casa. Nonno è sempre stato fiero di aver conquistato quel posto in
prima fila, quella vista che sormontava i tetti e finiva su Monte cambio. Chiedevo
anche a lui come arrivare lassù, non rispondeva, mi passava il cannocchiale e io
leggevo il monte.
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